INCONTRO TECNICO ATAVI TOLENTINO 2012

INCONTRO TECNICO ATAVI TOLENTINO 2012- DELL’1 APRILE
Ringrazio i colleghi del Consiglio Direttivo dell’ATAVI per avermi consentito di presentare le relazioni supportate da diapositive inerenti ai due argomenti all’ordine del giorno dell’incontro tecnico tenuto per oltre tre ore la domenica mattina del 1 aprile 2012, giorno successivo al raduno annuale, presso l’Hotel 77 di Tolentino (MC). Presenti all’incontro una trentina tra allevatori ed amatori, soci dell’ATAVI. L’incontro prevedeva un dibattito tra i presenti, seguendo una presentazione logica delle tematiche concernenti ciascuno dei due argomenti, che erano: 1) evoluzione del tipo nel Volpino Italiano: confronto con il passato; 2) selezione dei riproduttori nel contesto delle varie problematiche dell’allevamento. La trattazione guidata del dibattito si rendeva necessaria per avere a disposizione una documentazione che non lasciasse adito ad una semplice chiacchierata priva di riferimenti, bensì assumesse un approccio formale per gettare delle fondamenta concretamente utili allo sviluppo dell’allevamento nella molteplicità degli aspetti zootecnici che riguardano l’attuale situazione del Volpino Italiano verso prospettive di selezione mirata. 1) La prima relazione è stata intitolata: “Tipicità del Volpino Italiano documentata dal 1502 – Comparazione fra testimonianze storiche e standard ufficiale”, perchè in questa razza non si può parlare di evoluzione del tipo come in altre razze (casomai si deve parlare di involuzione, per quanto avvenuto negli ultimi 26 anni), poiché trattandosi di una razza antichissima autoctona, cioè formatasi per selezione spontanea e non certo creata dall’uomo, fonda il proprio tipo sulle caratteristiche tramandate nei secoli, che appunto solo recentemente sono state soggette a manipolazioni umane involutive. L’evoluzione del Volpino Italiano si è infatti completata già alcuni secoli fa e la selezione spontanea avvenuta nelle cascine agricole e nelle contrade rurali, soprattutto tra gli esemplari tenuti da birocciai e carrettieri, ha solo conservato intatto il tipo, perpetuato fino ai nostri giorni anche nella sua rusticità. La documentazione storiografica del Volpino Italiano risale infatti ben evidente fino a cinque secoli fa, essendo la prima testimonianza disponibile datata 1502. Si tratta di un’opera di quel Maestro immortale della pittura che è Vittore Carpaccio, intitolata “La visione di Sant’Agostino” e conservata nella Chiesa di San Giorgio a Venezia, “scoperta” per la cinofilia dall’arch. Giuseppe Alessandra (giudice all round) e pubblicata per la prima volta sulla rivista dell’ENCI “I Nostri Cani” alcuni anni or sono. Ebbene, le caratteristiche del soggetto dipinto dal Carpaccio nel 1502, nei tratti che si possono vedere, risultano le stesse del tipo descritto nello standard attuale, cioè presenta: testa nell’insieme corta, muso più corto del cranio, occhio rotondeggiante, orecchie lunghe la metà della lunghezza totale della testa, taglia stimabile sotto i 30 cm e costruzione molto raccolta. Tali caratteristiche di quella testimonianza iconografica cinquecentesca sono confermate dalle foto della prima metà del Novecento, di cui ho presentato un excursus dal 1930 al 1956. Il confronto tra due esemplari anonimi degli anni Trenta e Quaranta, pur dimostrando lo stesso tipo, fa notare due modalità di mantello, peraltro presenti anche oggi. Una modalità si presenta più abbondante ed uniformemente distribuita su tutto il corpo, mentre l’altra meno abbondante ma pur sempre con folto sottopelo segue la forma corporea, con una distribuzione del pelo più folta su collo e spalle, nonché con frange agli arti ben evidenti, ma con minore lunghezza attorno al torace. Entrambe le modalità sono però accomunate dalla tessitura sicuramente vitrea e dal collare (senza criniera). La tipicità trasmessa dalla testa di questi esemplari è la medesima di altri due soggetti degli anni Quaranta (questi non anonimi ma noti come Fiorellino del Garda e Fixi del Garda), nonché da un soggetto anonimo fotografato all’esposizione di Milano del 1952 e pubblicato sul libro “I cento anni dell’Enci”, che rispetto a dei Kleinspitz fotografati nella stessa manifestazione e pubblicati nello stesso volume dimostrano una differenza tipologica ben evidente anche ai non esperti. C’è chi (anche nel Comitato Tecnico ATAVI) ritiene che tali esemplari dal 1930 al 1952 rappresentino un modello non più odiernamente replicabile con il materiale oggigiorno disponibile e proprio per questo ho dimostrato il contrario mettendo a confronto le foto, peraltro scattate nella stessa posizione, del soggetto anonimo del 1940 (tra l’altro inserito come immagine esemplificativa di riferimento nella nuova stesura dello standard approvato dal Comitato Consultivo degli Esperti Giudici ENCI nella riunione del 25 ottobre 2011 ed in attesa di approvazione FCI) rispetto ad un soggetto vivente, con ciò facendo notare ai presenti come a distanza di ben 70 anni risultino vistosamente identici, al punto di pensare siano appartenenti alla stessa linea genetica, se non fosse che di mezzo è intercorso un periodo di tempo in cui il Volpino Italiano addirittura scomparve dai libri genealogici, interrompendo la documentazione delle discendenze genetiche. Sempre gli stessi detrattori della storiografia documentata del Volpino Italiano d’anteguerra (indubbiamente l’epoca d’oro della razza, stante la qualità degli esemplari che possiamo ammirare in tali rari e preziosi reperti fotografici), sostengono inoltre che il soggetto anonimo del 1940, quindi anche gli altri del medesimo modello dello stesso periodo storico, siano influenzati dal Kleinspitz. Sostengono ciò soltanto constatando che i soggetti in loro possesso non vi assomigliano, senza fare un concreto esame critico dell’effettiva aderenza allo standard del materiale di cui dispongono. A smentire tali opinioni personali non supportate da alcuna documentazione sono le caratteristiche facilmente visibili dalle immagini di quegli esemplari storici d’anteguerra, che riflettono i punti cardine della tipicità autoctona sancita dallo standard ufficiale nelle peculiarità prima menzionate già a proposito della testimonianza del 1502, peraltro ripetute nei capostipiti del recupero della razza, che a partire dal 1972 hanno riportato il Volpino Italiano nei libri genealogici dell’ENCI. Possiamo fortunatamente contare oggigiorno anche di un volpinista tuttora praticante come il consigliere ATAVI Corrado Barani, che è un testimone oculare del periodo post-recupero del vero Volpino Italiano quando era ancora incontaminato, il quale all’incontro tecnico di Tolentino ha nuovamente ricordato il momento in cui ha avuto inizio nel 1985 il meticciamento con l’incrocio tra una femmina Kleinspitz proveniente dall’Ungheria (che ottenne il Certificato di Tipicità in classe LIR come Volpino Italiano da un giudice con cognome italiano ma straniero, perciò neanche regolamentare, giacché il C.T. per regolamento ENCI deve essere assegnato solo da un giudice di nazionalità italiana) ed un maschio che fu di sua proprietà. Una testimonianza così franca di uno dei due diretti “protagonisti” di quell’evento allevatoriale che ha cambiato le sorti cinotecniche della razza in modo di certo non edificante, conferma ulteriormente, senza equivoci e dubbi, quanto si va sostenendo da tanti anni sull’avvenuta contaminazione alloctona che ha diffuso oltre ogni aspettativa, perfino dello stesso Barani, un fenomeno negativo lungi dall’essere risolto. Occhi a mandorla con ogiva a fessura molto stretta, mandibola scarsa di sviluppo osseo, muso molto appuntito e posteriore molto angolato da trottatore invece che tipicamente da galoppatore e saltatore quale è il vero Volpino Italiano, sono stati i primi difetti estranei emersi dal meticciamento, successivamente incrementati, nei casi “migliori”, da coda molto corta, groppa scoscesa e pelo leggero “sparato”, purtroppo fatto passare sovente come pregio, al posto del vero mantello pregiato vitreo e consistente, che per tale tipica caratteristica non può presentarsi “sparato” ma, come richiesto dallo standard, tenuto sollevato se in presenza di folto sottopelo. Nei casi peggiori, ossia quelli strettamente consanguinei sulla linea di sangue meticciata, la presenza dell’inquinamento era talmente evidente anche ai meno esperti a causa di una somiglianza quasi totale con il Kleinspitz, che fece dichiarare a Paschoud (allora presidente della commissione standard FCI), a margine della sua celebre conferenza di Berna del 1994 sulle razze similari, la possibilità che il nostro volpino venisse conglobato tra gli spitz tedeschi, anche su pressioni teutoniche, come avvenne con il Keeshond olandese diventato Wolfspitz germanico. Alcuni infatti ricordano che le pressioni germaniche provenivano dai giudici di lingua tedesca specialisti di Kleinspitz che giudicando i volpini italiani assegnavano il molto buono perfino in classe campioni ai soggetti discendenti dall’incrocio prima menzionato, appunto con la motivazione di una somiglianza indistinguibile, mentre elogiavano con la massima qualifica i soggetti della linea di sangue originale più antica esistente. Fortunatamente, prima un manipolo di allevatori ed ora la netta grande maggioranza, tutti loro aderenti all’ATAVI, stanno collaborando per preservare la linea di sangue originale più antica esistente, che opportunamente rinsanguata con altre valide linee alternative e con capostipiti rustici recuperati al RSR, sempre presenti ma purtroppo in passato colpevolmente trascurati dagli allevatori che preferirono le linee meticciate, hanno scongiurato il pericolo di perdere il nostro volpino (pericolo comunque non ancora del tutto superato). La prima parte dell’incontro tecnico di Tolentino ho voluto quindi concluderla con la diapositiva della femmina BOB al 3° raduno ATAVI del giorno precedente, a testimonianza del livello raggiunto utilizzando in riproduzione il maschio BOB del 1° raduno ATAVI di Sassuolo 2010, che conferma quell’indicazione zootecnica come fruttuosa per l’allevamento, a discapito di chi non ne ebbe fiducia. Si precisa però che, oltre alla duplice tipologia relativa alla disposizione del mantello prima menzionata, nel Volpino Italiano bianco autoctono è sempre esistita anche una duplice tipologia morfologica, ossia non solo quella elargita dai soggetti preferiti finora ai tre raduni annuali ATAVI, ma pure un modello di taglia superiore, comunque sempre con le stesse caratteristiche (testa corta, muso più corto del cranio, occhi rotondeggianti, coda lunga, ecc.). Entrambe le tipologie aderiscono quindi allo standard e si sono perpetuate nel tempo. Anche per l’altra tipologia ho infatti dimostrato con un confronto fotografico quanto un soggetto del 1990 fosse identico al campione italiano Douglas Lulino del 1950, nonostante una distanza di 40 anni. Entrambe le tipologie dimostrano inoltre che la differenza con il Kleinspitz è molto più evidente di quel che scrivevano negli anni Sessanta, probabilmente perchè in quel periodo la scomparsa della nostra razza non aiutò a constatare una diversità morfotipologica invece sempre esistita, sia nell’epoca d’anteguerra che negli ultimi quattro decenni. 2) Il commento alla seconda parte dell’incontro tecnico di Tolentino seguirà prossimamente. Antonio Crepaldi

SECONDA PARTE

Le problematiche attuali dell’allevamento del Volpino Italiano non sono poche, perchè riguardano aspetti tipologici, genetici, sanitari e commerciali. La deviazione dal tipo a causa del meticciamento avvenuto con ogni probabilità a più riprese anche in tempi recenti, prevalentemente con il Kleinspitz, ha procurato una purezza di razza decrescente a seconda dell’aumento della percentuale di sangue inquinato entro una linea genetica od un singolo soggetto. Non a caso la nostra razza si ritrova il gene patologico oculare della PLL (lussazione del cristallino), che rappresenta il problema sanitario attualmente più preoccupante, perchè in notevole aumento proprio in questi ultimi tempi in cui il sospetto meticciamento non ha smesso di farsi vedere agli occhi degli allevatori e degli amatori che, fortunatamente sempre più numerosi, grazie alla divulgazione del comitato tecnico dell’ATAVI, hanno imparato a distinguere le caratteristiche del tipo puro autoctono in confronto ai soggetti palesemente derivanti da linee di sangue meticciate, purtroppo incrementate spesso con l’idea di creare un prodotto più commerciale che utile alla selezione. Ricordiamo che l’ENCI non ha mai consigliato di meticciare alcuna razza, tanto meno quelle italiane con razze affini estere, anzi continua a tenere i libri genealogici dei cani purosangue e per accedere al RSR (ex LIR) occorre ottenere un Certificato di Tipicità. Non per nulla alcune associazioni specializzate hanno richiesto ed ottenuto che il C.T. sia assegnato unicamente nei raduni dove solitamente i giudici sono specialisti, proprio per garantire la tipicità della razza tutelata. Il consiglio sempre elargito in ogni epoca è invece quello di rinsanguare unicamente con soggetti rustici, appunto recuperati al LIR per la loro tipicità autoctona. Mai, infatti, la decisione del rinsanguamento deve essere lasciata al gusto personale di ciascun allevatore, pena l’anarchia selettiva ed in conseguente caos genetico, con possibili problematiche in aumento, come effettivamente avvenuto anche nel Volpino Italiano. Una razza non va invece mai modificata nella propria tipicità e pare indubbio che chi meticcia si colloca fuori dal concetto del vero Volpino Italiano autoctono. Diventa doveroso ricordare pure che chi meticcia lo fa clandestinamente, con la conseguenza illegale che esistono inevitabilmente delle genealogie falsificate sui pedigree ufficiali. Il meticciatore inoltre non è certo un maestro diallevamento ma solamente un attentatore alla purezza della razza. C’è ancora da dire che gli esemplari meticciati e palesemente atipici secondo lo standard andrebbero squalificati e non certo premiati. Il messaggio che si vuole pertanto lanciare una volta per tutte è che la genetica insegna il fatto innegabile che incrociando fra loro razze diverse non si ottengono di certo dei cani purosangue. Proprio su queste considerazioni esposte nella seconda parte dell’incontro tecnico di Tolentino vanno ricercate le soluzioni alle problematiche dell’allevamento, innanzitutto con le priorità da porre nella selezione dei riproduttori, cominciando con la massima valutazione della tipicità, in quanto se non c’è il tipo non c’è la razza, come hanno sempre insegnato i Grandi Maestri della cinotecnia. Le linee di sangue pure vanno pertanto preservate, mentre quelle meticciate vanno sottoposte alla purificazione purché presentino caratteristiche della testa e del mantello tendenti al fenotipo descritto dallo standard. Bisogna quindi tenere bene in conto i punti cardine della tipicità con l’espressione di razza autoctona, secondo appunto lo standard, peraltro confermato dalle testimonianze storiche, che vede la testa lunga al massimo il 40% dell’altezza al garrese; muso più corto del cranio; cranio più largo che lungo; occhi rotondeggianti; stop ben accentuato ma non troppo; orecchie lunghe la metà della lunghezza totale della testa e portate alla distanza concessa dal cranio largo, ravvicinate fra loro solo quando il cane è in massima attenzione; muso ben pieno di substrato osseo, cioè con mandibola ben sviluppata. Altre caratteristiche tipiche sono il pelo di copertura di tessitura vitrea, il sottopelo abbondante, la coda lunga che più si avvicina al collo e meglio è, il posteriore mediamente angolato con tibia più corta del femore. I difetti di tipo derivanti dal Kleinspitz sono gli occhi piccoli con ogiva a mandorla (in passato erano troppo prominenti, segno che i meticciamenti sono avvenuti con diversi Kleinspitz), stop incassato (tendente ai 90°), cranio con profilo a palla invece che ovoidale, orecchie ravvicinate a causa del cranio più stretto, muso leggero a causa della mandibola carente di ossatura e conseguentemente troppo appuntito, pelo di copertura leggero perchè non vitreo e conseguentemente portato difettosamente “sparato”, coda corta, posteriore troppo angolato con tibia molto lunga. Bisogna inoltre provvedere immediatamente a controllare, se non ad estirpare, la patologia attualmente più allarmante e l’ATAVI stapredisponendo un protocollo sanitario per il test genetico della PLL da presentare anche all’UMAVI (Unione Mondiale Associazioni Volpino Italiano) affinché in tutti i paesi aderenti (che sono ben 16 di 2 continenti) si possa procedere con misure e soluzioni comuni. Come base di allevamento possiamo fortunatamente poggiare sugli ultimi superstiti al 100% di sangue della linea genetica fondatrice del recupero del Volpino Italiano contemporaneo, che testati nel DNA dalla OFA (laboratorio degli Stati Uniti) risultano tutti esenti dal gene recessivo della PLL. Grazie all’intervento nel dibattito dell’incontro tecnico di Tolentino dell’allevatore pugliese e socio ATAVI Vito Lairo è stato possibile considerare ancora con maggior merito il valore tipologico di uno di tali superstiti, che quando ottenne il BOB al 1° Raduno annuale ATAVI di Sassuolo del settembre 2010 ed il BOS alla speciale ATAVI di Forlì del febbraio 2011 (il BOB lo fece sua figlia) venne capito da pochi, mentre poi ha dimostrato che la proposta fatta in quelle occasioni è stata ampiamente ripagata con una sua riproduzione di notevole livello, consapevolizzandomi come giudice di quelle manifestazioni d’aver compiuto la scelta indicativa giusta ai fini dell’allevamento, come avevo apertamente dichiarato e commentato. Il dibattito sul secondo argomento trattato nell’incontro tecnico di Tolentino non si è ovviamente esaurito solo con quanto fin qui esposto, per cui seguirà un ulteriore approfondimento che verrà pubblicato prossimamente, chiudendo ora questo commento ricordando d’aver dimostrato con testimonianze documentali che il Volpino Italiano storico, tra l’altro relativamente agli esemplari di maggior tipicità, presentava una taglia stimabile sotto i 30 cm al garrese, rispetto a quanto sostenuto da qualche neofita che in passato esistevano solo soggetti grandi. Si rende invece necessario considerare in proposito che gli esemplari più grandi erano riconducibili agli ambienti rurali perchè in quel contesto gli accoppiamenti avvenivano casualmente ed è accertato che qualora la selezione sia libera e vagante invece che operata da circostanze restrittive, la taglia dei cani di qualsiasi razza tende a raggiungere l’altezza media, poiché è quella del generico cane ancestrale. Se pertanto vengono accoppiati fra loro solo esemplari grandi, un giorno ci ritroveremo anche con il problema del Volpino Italiano “samoiedizzato”, oltre che “spitzato”. Se fin dal primo standard ufficiale del 1913 è richiesta l’altezza sotto i 30 cm ci sarà pure un motivo rispecchiantela taglia della popolazione di quel periodo storico, come appunto dimostrato dalle foto della prima metà del 900. Solo nella seconda edizione dello standard degli anni ’50 è stato ampliato il margine della taglia anche con la tolleranza di 3 cm in più, facendo pensare che fu constatata da quel periodo l’esistenza di esemplari superiori ai 30 cm e conseguentemente conglobati nello standard, stante pure che si rendeva necessario per la questione dell’assenza di iscrizioni ai libri genealogici in cui si ritrovò la razza proprio in quegli anni. Ecco allora che le testimonianze storiche, standard compreso, indicano che sono i volpini inferiori ai 30 cm ad essere i più antichi e solo la casualità degli accoppiamenti liberi e vaganti aumentò la taglia del Volpino Italiano di metà 900. Ancora oggi, d’altronde, ritrovando esemplari rustici autoctoni, ad es. come i 5 soggetti della stessa famiglia vivente da alcune generazioni sugli Appennini emiliani, ai quali assegnai il C.T. al raduno di Sassuolo 2010, laddove non sono discendenti da accoppiamenti casuali ma obbligati dall’isolamento geografico in cui vivevano, la loro taglia era omogeneamente sotto i 30 cm, a dimostrazione che anche la selezione rustica spontanea e naturale, se circoscritta e non casualmente libera e vagante, induce a fissare la taglia secondo l’ideale dello standard, come peraltro sempre voluto da tutti gli allevatori, sia in passato che oggi. Gli esemplari più grandi odiernamente esistenti, come la femmina enorme alla quale non ho assegnato il C.T. al raduno di Tolentino 2012, non sono rustici autoctoni, bensì provenienti dall’Ungheria, purtroppo mediante la deprecabile tratta dei cuccioli dall’est che invade l’Italia. Tali soggetti di chissà quale fonte genealogica, certamente non autoctona, non possono ovviamente apportare alcun rinsanguamento rustico per il miglioramento genetico del vero Volpino Italiano autoctono. La taglia non è tuttavia una problematica dell’allevamento attuale e non ha priorità nella selezione, perchè ciò che conta maggiormente è sempre la tipicità, indipendentemente dall’altezza al garrese.

 

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